22 Febbraio 1931, Castellammare di Stabia. Dagli scali del Regio Cantiere Navale scende in mare la nave scuola destinata a divenire il simbolo della marineria Italiana, la nave più bella del Mondo.
Una città, quel giorno di 92 anni fa, in festa tra luci e ombre, legata indissolubilmente alla Marineria.
A cura di Antonio Cimmino, Ivan Guida e Gruppo Giovani ANMI (Claudio Carrese, Angela Cuomo, Martina De Marco, Francesco Esposito, Vincenzo La Monica)
Nubi scure si addensavano sul cielo di Castellammare e la foschia regnava sovrana nel golfo ormai da diversi giorni. Il Vesuvio si era cinto di “cappello” tanto che furono in molti a uscire con l’ombrello in quella mattina del 22 febbraio 1931 che faceva presagire pioggia. Il tutto nel rispetto di un antico detto “Se il Vesuvio ha il cappello esci con l'ombrello” che, spesso, veniva pronunciato in segno di affetto e rispetto per l’antico vulcano che dominava il golfo di Napoli. Eppure non erano passati molti anni dall’ultima eruzione che tante tracce aveva lasciato sulle campagne dei comuni napoletani, a dimostrazione di una furia distruttiva indomabile da millenni ma che la città delle acque si era ormai messa alle spalle. Nemmeno le nubi nere cariche di pioggia facevano desistere gli stabiesi dall’uscire in strada festanti per assistere, in tranquillità, all’ennesimo successo del Regio Cantiere. Sin dal primo mattino i cittadini si riversarono sul lungomare e nel parco delle Villa Comunale per guadagnare la posizione migliore per assistere al varo di una nave che da lì a poche ore si sarebbe celebrato. Nonostante le condizioni avverse, la Direzione del Cantiere non era intenzionata a rinviare il varo che non avrebbe visto nessuna madrina di Casa Savoia.
Le maestranze erano già al lavoro da giorni per liberare la pesante massa in acciaio dello scafo della nuova nave da taccate e puntelli, che l’avevano sostenuta in fase di costruzione, ai vasi che, mediante una soletta di legno duro, erano appoggiati sul piano di scorrimento cosparso di sego e materiale lubrificante che, nei due giorni precedenti, era stato applicato nonostante le avverse condizioni meteo che rendevano proibitiva qualsiasi azione per l’avvio delle operazioni propedeutiche al varo. Lo scafo si ritrovò in questo modo appoggiato su quella che in buona sostanza era una vera e propria enorme slitta inclinata, i cui pattini erano costituiti da due grosse travi parallele, e il cui scopo principale era quello di facilitare, in tutta sicurezza, la spontanea discesa in mare dello scafo per effetto del suo peso. Furono lasciati come ritenute e scontri del sistema nave-invasatura per impedirgli anzitempo la discesa in acqua, solamente gli scontri di poppa, le castagne laterali di ritenuta sempre a poppa e le trinche di ritenuta a prua.
Al momento opportuno, laddove si fosse reso necessario e anche per garantire una maggiore sicurezza, l’azionamento dei martinetti idraulici avrebbe agevolato lo scivolo dell’invasatura vincendo in tal modo l’attrito di primo distacco.
Nulla aveva fermato i preparativi, neanche le piogge incessanti che da giorni si erano abbattute sull’antica Fabbrica di Navi, creando non pochi problemi alle maestranze. Vi era anche un altro buon motivo per far scendere assolutamente la nave in acqua in quella fatidica data del 22 febbraio 1931: il 419° anniversario della morte a Siviglia del celebre navigatore ed esploratore fiorentino Amerigo Vespucci di cui portava il nome il nuovo bastimento, che si accingeva a lasciare l’antico scalo di origine borbonica del cantiere che tanto lustro aveva dato alla Nazione , diventando una delle perle nel campo delle costruzioni navali nel Mediterraneo e anche nel mondo. Eppure quel primato negli ultimi anni sembrava esser stato messo in discussione. Erano infatti in molti a temere che il Regio Cantiere non rientrasse più nelle priorità del Governo, visti i continui licenziamenti delle maestranze e le voci di vendita ai privati dello stabilimento che si erano ormai fatte sempre più ricorrenti. In molti temevano che la condizione in cui versava ormai la più antica fabbrica di navi del Mediterraneo non era altro che una chiara vendetta del capo del Governo: Benito Mussolini. Il capo del fascismo fu infatti accolto glacialmente dalle maestranze stabiesi nella visita avvenuta in cantiere nel 1924. L’angoscia subentrava ai timori se si considerava che negli ultimi tre anni le maestranze erano state mortificate con la costruzione di mero naviglio minore, se si esclude dal computo il varo dell’incrociatore Giovanni delle Bande Nere e della prima nave scuola, il Cristoforo Colombo. Il tutto a dispetto di ben 145 anni ininterrotti di attività, cominciata su un piccolo arenile nel 1786 grazie ai maestri d’ascia, eredi e continuatori di una nobile e secolare tradizione marinara e di un bagaglio tecnico e professionale unico al modo grazie al quale videro la luce navi che stravolsero il settore delle costruzioni navali, portando la marineria italiana a guadagnare un posto di tutto rispetto fra le maggiori marine europee, se non addirittura mondiali. I timori erano fondati: l’orientamento del Governo, naturale conseguenza di aspri e lunghi dibattiti parlamentari che negli anni erano intercorsi tra Camera dei Deputati e Senato, era quello di ridurre gli arsenali militari in Italia, scegliendo La Spezia e Taranto come basi privilegiate e prevedendo la chiusura per i cantieri di Pola e Castellammare di Stabia, cantiere, quest’ultimo, di cui il Duce voleva assolutamente disfarsi, lasciandolo per il momento nell’oblio fino al raggiungimento dello scopo prefissato. Con un semplice colpo di penna due delle realtà più importanti del Mediterraneo erano ormai destinate a divenire un semplice nota ai margini della storia. Gli esperti e i massimalisti lavoratori dell’arsenale stabiese tentarono il tutto per tutto inviando una petizione a Mussolini, chiedendo la tutela del posto di lavoro, anche se non dichiaratamente fascisti poiché “…essi erano solo dissimili soltanto per fedeltà ed ossequio alle patrie Istituzioni…”. Gli animi ormai erano esacerbati, pronti a scatenare una rivoluzione se lo scenario non fosse cambiato di lì a poco. E tante furono le rimostranze delle varie autorità locali affinché si trovasse giusto rimedio per accontentare quelle che erano giuste rivendicazioni di un popolo che non voleva altro che lavorare. La triste situazione vissuta dal cantiere si ripercuoteva anche sull’intera città che, da qualche anno, si era indirizzata verso una lenta e inesorabile decadenza. La vita mondana, a dispetto della mala sorte, proseguiva, incurante delle avversità, la gente riempiva i cafè chantant sul lungomare, godendosi la passeggiata serale tra i platani dei giardini pubblici, allietata dall’orchestra in esibizione sulla pedana della Cassarmonica, realizzata in stile liberty in Villa Comunale, e dai musicisti di caratura internazionale che non mancarono di esibirsi nel parco della Antiche Terme.
Quel giorno la città sembrava per un attimo abbandonarsi alle spalle la cattiva sorte che inesorabilmente anche con quel maltempo si abbatteva sulla città, riprendendo tutti quei riti tra sacro e profano che precedevano il varo di una delle glorie del Regio Cantiere. Difatti il varo di una nave, oltre a rappresentare un evento economico-produttivo di un paese, era anche un momento spiritale per l’intera comunità marinara molto sentita specialmente in Castellammare. Scienza e Fede si univano in un connubio complesso con tradizione e innovazione dove nulla è lasciato al caso. Il varo, oltre a essere a livello tecnico uno dei momenti più delicati e importanti della costruzione di un bastimento, era per le maestranze del cantiere che lo avevano realizzato un rito propiziatorio dall’alto significato simbolico che, per antica tradizione, ancora oggi viene consacrato da solenni cerimonie, come la benedizione religiosa e il battesimo profano dello scafo da parte di una Madrina. Nella sostanza il tutto simile ad un padre che si appresta a battezzare la propria figlia, una nuova creatura che nasce, che inizia a muovere i primi passi, in questo caso a baciare il mare e iniziare la sua navigazione.
La nave da semplice conglomerato di acciaio, diventa un luogo sacro, un qualcosa che ha un’anima e su cui a bordo vivrà un equipaggio in grado di tramandare una scienza diventata perfetta: l’arte del navigare. E nulla più di quella nave incarnava tutti gli ideali di quel giorno. Lo scafo del Vespucci che da lì a poco avrebbe iniziato la sua discesa verso il suo elemento naturale, il mare, era stato concepito con lo scopo di integrare tradizione e innovazione in un surplus unico nel suo genere: integrare la teoria assimilata nell’Accademia Navale di Livorno con l’addestramento marinaresco, affidato alla perizia dell’equipaggio che lo governava. ella cappella del Cantiere, alle otto in punto, si celebrò la messa propiziatoria alla presenza delle maestranze del cantiere, del Comandante Militare Oscar Cerio e del Direttore del Cantiere stabiese Odoardo Giannelli. Nel frattempo sotto le palme e gli oleandri del lungomare si stava radunando la popolazione stabiese in attesa del varo e delle autorità.
La bassa pressione che ormai risiedeva fissa sul Golfo di Napoli, faceva arrivare fitta pioggia sul porto del capoluogo e i venti di Scirocco e di Libeccio si abbattevano con tutta la loro forza nel Tirreno meridionale, costringendo i comandanti delle navi a non tentare la fortuna in mare e a trovare riparo nei porti. Il fotografo Gaetano Cobuzio, stabiese, assieme a un operatore dell’Istituto Luce mandato da Roma si preparava a documentare la cerimonia del varo, nonostante le condizioni atmosferiche poco favorevoli che mal si prestavano ad esaltare il chiaroscuro delle sagome dello scafo, per immortalare la discesa in mare della nuova nave scuola dell’Accademia Navale che avrebbe affiancato il Cristoforo Colombo. Da Napoli, l’unica nave a guadagnare il mare fu la nave cisterna Brenta che, mollati gli ormeggi ,si accingeva a raggiungere Castellammare in un paio d’ore, per presenziare al varo della nuova nave scuola della Regia Marina. Era carica di giovani in camicia nera, accompagnati da un folto gruppo di soci della Lega Navale di Napoli. Sul Brenta si imbarcò anche il Conte Roberto Filangeri di Candida, Presidente della sezione di Napoli della Lega Navale. Gli ospiti del Brenta rappresentavano la massima partecipazione del Regime Fascista al varo del nuovo scafo della Marina Militare messo in acqua dalle maestranze del cantiere navale stabiese. Lo spietato piano di Mussolini di lasciare nell’oblio Castellammare e il suo Regio Cantiere continuava ad esser messo in atto. La motivazione dello svolgimento in tono minore di così importante cerimonia era ufficialmente legata alla spettacolare impresa del Ministro dell’Aeronautica, Italo Balbo, che, al comando di una squadriglia di 12 idrovolanti, era riuscito ad ammarrare, con 11 velivoli in formazione, nella baia di Rio de Janeiro il 15 gennaio dello stesso anno. Quindi, per il regime fascista, l’opinione pubblica, la stampa e i mezzi di comunicazione del regime c’era pochissimo spazio da dedicare per il varo di una “semplice nave scuola della Regia Marina in Castellammare” ,concentrati sulle mitiche avventure del Ministro Balbo che da pochi giorni aveva fatto rientro in Italia a bordo del Conte Rosso. Nonostante il tempo volgesse sempre più al peggio, tutto era pronto per la solenne cerimonia del varo. In quella domenica invernale segnata dalla pioggia non sarebbe transitato alcun convoglio ferroviario che, con frequenza, riforniva di lamiere e altri materiali il cantiere navale disposto nella zona portuale, in una zona periferica all’altro capo della città. Il tutto favoriva la popolazione che tranquillamente poteva passeggiare lungo la costa come in qualsiasi altro giorno di festa e non essere disturbata nel corso delle operazioni di varo. Sul lungomare dunque i cittadini, sgomitando, cercavano di guadagnarsi gli ultimi posti disponibili per assistere al varo. Si aspettava ormai solo l’arrivo delle autorità locali e di Sua Eccellenza Ragosta, Vescovo della Città. Alle 9,30 il Brenta attraccò nel porto di Castellammare. Il Conte Filangeri di Candida salì sulla Cassarmonica allestita a ridosso dello scalo su cui il Vespucci si apprestava a congiungersi col suo elemento naturale: il mare.
Vi erano sul palco anche il Segretario Federale avv. Schiassi, il senatore Castelli, Alto Commissario di Napoli, l’Ammiraglio Nicastro, comandante del Basso Tirreno e il Presidente della Provincia Foschini in rappresentanza di S.E. Albricci oltre a molte altre personalità di prestigio locali. Il Vespucci, dalla carena tondeggiante, nel frattempo aspettava, puntato dagli scontri, in pendenza, con la poppa pronta per lo scivolamento in acqua, e la sagoma che non conferiva alla nave certamente le caratteristiche di un bastimento veloce. Tutto era pronto attorno allo scalo numero 2 del cantiere che ,prima del Vespucci, aveva visto nascere e crescere su di esso il vascello Monarca, la prima corazzata Duilio, il Benedetto Brin, l’incrociatore San Marco e la supercorazzata Francesco Caracciolo che, date le notevoli dimensioni, rese necessario radicali lavori di ammodernamento dell’antico scalo in muratura di origine borbonica dotato per l’occasione di avanscalo in metallo. Dirà il colonello del Genio Navale Odoardo Giannelli, Direttore del Cantiere, nel corso del suo accorato discorso al momento del varo: “Mercè l’opera assidua dei nostri infaticabili operai, anche questa nave che abbiamo vista nascere a primavera sta per scendere in mare, e non è ancora compiuto il giro delle stagioni”. Di fatto, Giannelli descrisse in poche parole la maestria degli arsenalotti di Castellammare e non destava certo meraviglia, fra gli stabiesi stessi, ricordare, che nel 1780 John Edward Acton, “esperto in arti marinaresche e guerriero” nonché ministro di Ferdinando IV di Borbone, aveva individuato in Castellammare, alle falde del monte Faito, la località dai requisiti ottimali per organizzare quello che fu a tutti gli effetti lo stabilimento navale più moderno, per l’epoca, d’Italia e del Mediterraneo. Giannelli, rivolto alle tribune, aveva aggiunto che la nave “… scende in mare benedetta dal successore del venerato Patrono di questa città e battezzata dalle mani gentili di avvenente donzella…”. Alle 9.45 fu dato il via all’accurata visita all’invasatura da parte di tecnici deputati allo scopo, per accertarsi che fra le guide e i vasi non fosse presente alcun ostacolo allo scivolamento del sistema nave-invasatura sul piano inclinato. Dopo pochi minuti arrivò il Vescovo Ragosta, che, poco prima, aveva celebrato la messa propiziatoria secondo trazione, accompagnato dal Capitolo e da uno stuolo di chierichetti.
Egli salì assieme al Comandante Oscar Cerio, Comandante Militare del Cantiere di Castellammare, sul palco del battesimo costruito a prora della nave dove attendeva la Madrina, Elena Cerio, figlia poco più che ventenne del Capitano di Vascello Oscar Cerio, Comandante Militare dell’antica Fabrica delle Navi.
Era la prima volta, nella storia del cantiere, durante il quale un “battesimo” dello spumante non avveniva per mano di una Madrina della famiglia reale. Alle 10.00 in punto ecco che una tromba segnala a tutti gli addetti il “POSTO DI MANOVRA”, seguito subito da un secondo che dà così avvio alle operazioni di varo con la rimozione delle ultime taccate e delle castagne. Lo scafo è avvinto alla terra dalle sole trinche di ritenuta. Ecco dunque il Vescovo, che con grande solennità, impartisce con l’aspersorio la prima benedizione al Vespucci, poi scendendo altrettanto velocemente, fa il giro dello scafo, benedicendo con soavità liturgica scafo e folla per riapparire subito sul palco. Qualche istante ed ecco che il Direttore delle operazioni di varo, fatto dare il segnale di tromba “ATTENTI” e assicuratosi che dalla lanterna posta sul vecchio fortino borbonico fosse ben visibile il segnale “SPECCHIO D’ACQUA LIBERO” rappresentato da una bandiera verde che, in caso di presenza di ostacoli si sarebbe abbasata, ordina “NEL NOME DI DIO TAGLIA”. La bottiglia di spumante lanciata con forza dalla madrina Elena Cerio non si infrange subito sull’acciaio dolce del dritto di prora della nave, rendendo necessario un secondo lancio che centra l’obbiettivo, allontanando subito presagi funesti che nel frattempo andavano ad animare i cuori delle maestranze. Contemporaneamente sotto il palco, iniziano le manovre vere e proprie del varo. Il silenzio mistico che accompagnava la cerimonia viene rotto dal rimbombo dei colpi delle accette sulle trinche di ritenuta a prora. Ancora una volta la voce del Direttore del Cantiere sovrasta i rimbombi delle operazioni di varo: “IN FORZA I MARTINETTI”. È il momento dell’attesa massima, l’emozione è al colmo. Le anime delle maestranze sono attraversate da un turbine di emozione che vanno dalla gioia alla desolazione.
Si trattiene il respiro, s’impallidisce, si trema quasi aspettando. I martinetti gemono, una piccola spinta, un solo giro della vite, ed ecco che la nave si scuote, vinto l’attrito di primo distacco, lentamente scivola poi corre ardita, al fine si tuffa nel mare tra un pulviscolo bianco di gocce. Le maestranze, che ai margini dell’invasatura, spiavano ogni piccolo movimento dello scafo, accompagnandolo con lo sguardo fino al “bacio” con il mare, si abbandonano alla gioia di vedere l’ennesima gloria finalmente in mare: l’aria è carica del fragoroso rumore degli applausi e dei suoni della banda e delle sirene delle navi in porto. L’atmosfera è quella di una grande festa e, per un attimo, tutti vogliono dimenticarsi delle tante nubi oscure, meteorologiche e non, che sorvolano la città e il suo cantiere. Ed ecco che i due cavi di ritenuta entrano in forza per spegnere l’abbrivio, il moto, della nave finalmente in acqua, libera dall’invasatura che si adagia sul fondo e galleggiante.
La slitta sarà recuperata successivamente, i pezzi conservati nei magazzini e riutilizzati per altri vari. L’evento pareva rientrare in una tradizionale cerimonia per uno dei tanti vari di quello che era stato il più importante cantiere navale del Mediterraneo nella prima metà dell’Ottocento.
Fra le nubi del cielo non fece capolino il raggio di sole, ma il Vespucci scivolò lentamente in acqua, illuminato dalla luce della Storia e legando il suo nome a quello della città che gli ha dato i natali. Nessuno quel giorno osò immaginare che quel bastimento, varato tra l’indifferenza totale, contornato dal maltempo e dall’alone della mala sorte, avrebbe avuto l’attività operativa più lunga di qualsiasi altra nave della storia fino ad arrivare a esser definito la nave più bella del mondo. Quel giorno aveva inizio la leggenda del Vespucci.